La massificazione dei consumi
La società dei consumi prevede i fenomeni di consumo come fattore centrale dell’esistenza sociale degli individui. In quanto tale, essa si fonda sulla democratizzazione del lusso, ovvero sull’allargamento dell’accesso ai consumi “secondari” anche per quell’ampia fascia di popolazione le cui risorse sono state fino a quel momento interamente, o quasi, assorbite dal soddisfacimento dei bisogni primari. Non a caso, uno degli indicatori più certi e visibili della nuova società è la progressiva riduzione della quota di bilancio familiare destinata al cibo, mentre crescono i consumi legati alla salute, agli svaghi, al miglioramento delle condizioni abitative. Questa “democrazia del benessere”, tendendo a rendere più omogenea la distribuzione sociale dei consumi, contribuisce potentemente a trasformare il tradizionale modello di società, caratterizzato da una struttura gerarchica di tipo piramidale, in una società a struttura romboidale, incentrata su un ceto medio in forte espansione.
Come si diceva, però, la società dei consumi si è sviluppata non solo grazie a un’impetuosa crescita economica e a un sistema di protezione sociale e di redistribuzione delle risorse più efficace che in passato, ma anche grazie all’emergere di una mentalità di tipo nuovo. Per una cultura contadina, ha scritto Alessandro Pizzorno, “il risparmiare è considerato un valore morale […] all’opposto del risparmio sta lo spreco, che è invece sentito come comportamento riprovevole, in certi casi quasi peccaminoso. Spendere in cose che non siano strettamente necessarie è un modo di comportarsi che la comunità non potrà che riprovare”. Questo modello di consumo – retaggio di una lunga storia di pauperismo, riflesso di una cultura in cui la paura, l’esperienza o il ricordo della carestia sono ancora drammaticamente presenti – comincia a trasformarsi proprio a partire dalla metà degli anni Cinquanta. A far vacillare la tradizionale attitudine psicologica nei confronti dei consumi è, in primo luogo, l’intenso processo di urbanizzazione che, nel secondo dopoguerra, modifica la distribuzione della popolazione europea. L’esempio dell’Italia consente di farsi un’idea delle dimensioni che tale fenomeno può raggiungere: tra il 1951 e il 1961, la popolazione italiana cresce di più di tre milioni di unità; il 90,6 percento di questo aumento si concentra nei capoluoghi di provincia. Le quattro principali città italiane: Roma, Milano, Torino, Genova conoscono un’espansione impetuosa, mentre la percentuale di addetti al settore agricolo cala dal 43 percento al 28 percento. Altrove le cifre sono diverse, ma nel complesso la società europea viene attraversata da un massiccio fenomeno di migrazione interna, dalle campagne alle città, i cui effetti sono potenziati dal fatto che esso tende a svolgersi all’insegna del rifiuto della società tradizionale, rappresentata da quel mondo contadino che si è abbandonato. La diffusione del modello urbano, infatti, non è solo frutto dell’espansione delle città e dello spopolamento progressivo delle campagne: nel determinare la crisi della cultura contadina – in riferimento ai consumi, nel favorire il passaggio dall’“etica della formica” all’ “estetica della cicala” – svolge un ruolo fondamentale anche la televisione. Esponendo persino i paesi più sperduti alle lusinghe della città, fatte di elettrodomestici, automobili, radio portatili e vestiti in serie, la televisione contribuisce a fare dei consumi “moderni” efficaci meccanismi di socializzazione anticipatoria rispetto a valori, abitudini, modelli di convivenza propri di quella civiltà urbana alla quale si desidera appartenere: la logica dell’integrazione sociale finisce così per fare del nuovo modello di consumo una sorta di scelta obbligata.