Marcuse, i falsi bisogni e la massificazione dei consumi

La società dei consumi si caratterizza per la diffusione a livello di massa dei consumi secondari, ovvero non legati all’alimentazione. Questa “democrazia del benessere” prende avvio negli Stati Uniti negli anni tra le due guerre e si sviluppa nei Paesi dell’Europa occidentale a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Tra i fattori che ne favoriscono lo sviluppo ci sono la standardizzazione della produzione, l’aumento della ricchezza nazionale e pro capite, l’urbanizzazione, l’avvento dello stato sociale e la forza espansiva del modello americano.

La massificazione dei consumi

La società dei consumi prevede i fenomeni di consumo come fattore centrale dell’esistenza sociale degli individui. In quanto tale, essa si fonda sulla democratizzazione del lusso, ovvero sull’allargamento dell’accesso ai consumi “secondari” anche per quell’ampia fascia di popolazione le cui risorse sono state fino a quel momento interamente, o quasi, assorbite dal soddisfacimento dei bisogni primari. Non a caso, uno degli indicatori più certi e visibili della nuova società è la progressiva riduzione della quota di bilancio familiare destinata al cibo, mentre crescono i consumi legati alla salute, agli svaghi, al miglioramento delle condizioni abitative. Questa “democrazia del benessere”, tendendo a rendere più omogenea la distribuzione sociale dei consumi, contribuisce potentemente a trasformare il tradizionale modello di società, caratterizzato da una struttura gerarchica di tipo piramidale, in una società a struttura romboidale, incentrata su un ceto medio in forte espansione.
Il primo, indispensabile presupposto della massificazione dei consumi è rappresentato dalla standardizzazione della produzione, che consente di produrre una grande quantità di beni a un costo unitario sempre più basso. Alle lontane origini di questo processo si trova dunque la rivoluzione industriale e soprattutto, in tempi più recenti, la produzione su larga scala garantita dall’applicazione dei metodi fordisti. Ma questa pur necessaria condizione non è certo sufficiente a creare l’habitat ideale per lo sviluppo di una società incentrata sui consumi. Gli altri requisiti sono una sostenuta crescita economica, una distribuzione almeno tendenzialmente “democratica” della ricchezza (caratterizzata in primo luogo da salari relativamente elevati) e una mentalità orientata al consumo, pronta a infrangere gli antichi tabù contadini del risparmio e della tesaurizzazione. Nell’Europa occidentale, tutto questo avviene nel secondo dopoguerra, più precisamente a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Tra il 1950 e il 1970, i Paesi dell’Europa occidentale fanno registrare un tasso di crescita annuo del prodotto interno lordo del 5,5 percento; la produzione industriale triplica il suo volume, e il tradizionale ciclo commerciale si trasforma in un ciclo ininterrotto di crescita, che nelle fasi di flessione diventa semplicemente meno rapida. A tutto questo si aggiunge un ambiente politico-istituzionale favorevole, perché il rafforzamento dello Stato sociale fa sì che, almeno in buona parte, l’andamento dei consumi sia indipendente dalle fluttuazioni del mercato. Fa così il suo ingresso sulla scena della storia una società di tipo nuovo, la quale – per la prima volta – si definisce nel segno dell’abbondanza: una “società opulenta” – affluent society la definisce l’economista John Kenneth Galbraith nell’omonimo volume del 1958, che apre una lunga stagione di dibattiti intorno alla natura e ai limiti della “società dei consumi”, – caratterizzata da una forte espansione dei consumi privati e da una rapida massificazione del mercato dei beni “voluttuari”: l’automobile, gli elettrodomestici, le vacanze.
Come si diceva, però, la società dei consumi si è sviluppata non solo grazie a un’impetuosa crescita economica e a un sistema di protezione sociale e di redistribuzione delle risorse più efficace che in passato, ma anche grazie all’emergere di una mentalità di tipo nuovo. Per una cultura contadina, ha scritto Alessandro Pizzorno, “il risparmiare è considerato un valore morale […] all’opposto del risparmio sta lo spreco, che è invece sentito come comportamento riprovevole, in certi casi quasi peccaminoso. Spendere in cose che non siano strettamente necessarie è un modo di comportarsi che la comunità non potrà che riprovare”. Questo modello di consumo – retaggio di una lunga storia di pauperismo, riflesso di una cultura in cui la paura, l’esperienza o il ricordo della carestia sono ancora drammaticamente presenti – comincia a trasformarsi proprio a partire dalla metà degli anni Cinquanta. A far vacillare la tradizionale attitudine psicologica nei confronti dei consumi è, in primo luogo, l’intenso processo di urbanizzazione che, nel secondo dopoguerra, modifica la distribuzione della popolazione europea. L’esempio dell’Italia consente di farsi un’idea delle dimensioni che tale fenomeno può raggiungere: tra il 1951 e il 1961, la popolazione italiana cresce di più di tre milioni di unità; il 90,6 percento di questo aumento si concentra nei capoluoghi di provincia. Le quattro principali città italiane: Roma, Milano, Torino, Genova conoscono un’espansione impetuosa, mentre la percentuale di addetti al settore agricolo cala dal 43 percento al 28 percento. Altrove le cifre sono diverse, ma nel complesso la società europea viene attraversata da un massiccio fenomeno di migrazione interna, dalle campagne alle città, i cui effetti sono potenziati dal fatto che esso tende a svolgersi all’insegna del rifiuto della società tradizionale, rappresentata da quel mondo contadino che si è abbandonato. La diffusione del modello urbano, infatti, non è solo frutto dell’espansione delle città e dello spopolamento progressivo delle campagne: nel determinare la crisi della cultura contadina – in riferimento ai consumi, nel favorire il passaggio dall’“etica della formica” all’ “estetica della cicala” – svolge un ruolo fondamentale anche la televisione. Esponendo persino i paesi più sperduti alle lusinghe della città, fatte di elettrodomestici, automobili, radio portatili e vestiti in serie, la televisione contribuisce a fare dei consumi “moderni” efficaci meccanismi di socializzazione anticipatoria rispetto a valori, abitudini, modelli di convivenza propri di quella civiltà urbana alla quale si desidera appartenere: la logica dell’integrazione sociale finisce così per fare del nuovo modello di consumo una sorta di scelta obbligata.

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